2024
Due dipinti
e la memoria di una vita
Di lui ho già avuto modi di parlare tanto nel mio racconto “A due passi da casa” (G. Carafa, Racconti altri, EPD’O, 2023) che in «La possibilità dell’impossibile», (cfr. Notiziario culturale EPD’O – bimestre Ottobre/Novembre 2023) laddove, del Nostro, visitavo la grandiosa ultima sua opera, “Mundus”.
Che dire, sapevo, per sentito dire, che un editore ha sempre un occhio particolare d’ascolto nei confronti degli autori, e segnatamente per i suoi, ma fino a quando non sono stato più direttamente e personalmente coinvolto nell’avventura editoriale non me ne sono mai curato all’attenzione.
Bah!...
Nell’averlo poi spesse volte contattato per le mie necessità e l’aver scoperto in lui anche il comune interesse vitale per il visuale, tanto nella forma produttiva che in quella interpretativo-culturale, è stato inevitabile avviare e sempre più approfondire tanto le problematiche dell’Arte che dell’eterno quid di humanitas in essa presente.
Uhm!...
Finalmente, in questo mondo di qualunquismo, ancora qualcuno parla la lingua del cuore, del sentimento, della lealtà e dell’amore (a parte “i professionisti dello spirituale…”).
Il nostro frequentarci, seppur per lo più per motivi di commissione… ha via via generato, spontaneamente, quel collante che dovrebbe sempre unire il sociale: il rispetto, la concordia, l’espressione e scambio del libero pensiero e, perché no, l’amicizia, tacita e reciprocamente, sincera, serena e disinteressata.
Col tempo mi sono detto: «Mah, che strano (?), è proprio vero: un editore è veramente colui che ha le carte più in regola per poter parlare di un suo autore-cliente». «In fondo, a ben pensarci, le necessità tecniche e di dialogo sui contenuti che accompagnano il prodotto in esibizione/proposizione (bozza/libro) portano anche ad ascoltare e capire, o per lo meno farsi un’idea di quella penna pensante che ora chiede essere visibilità».
E lui, il Nostro, queste capacità di ascolto le possiede tutte, così come possiede il garbo, la riservatezza, la pacatezza, la pazienza e, perché no, anche, quasi come un “vate”, la visione del futuro di quel prodotto in fieri.
Insomma, con Roberto, Roberto Cau di Oristano, intendo, è questo il suo, col pittore-editore Roberto Cau, dicevo, il frequentato per me è diventata una profonda amicizia che ancora mi dà da pensare sul come le circostanze più sincere dell’Arte possano sempre creare assonanze, condivisioni, sollievo della mente e dello spirito.
Una massima tutta mia, poi, che spesso mi pervade la mente, è quella che, a ben guardare, nei rapporti tra le diverse sensibilità artistiche emerge sempre più la convinzione che il valore Arte, nel senso più genuino e veritiero del termine, non può, essendo espressione umana pura, libera e piena, che generare anche eccellenti “cittadini”, rispettosi dell’essere società, membri di un democratico e fattivo/produttivo proporsi comunitario:
nell’Arte non c’è posto per il “baro”!
Il valoriale in cui si crede e ci si esprime, proprio perché “valore” non può essere negazione della sacralità della vita tanto individuale che comunitaria, di qua l’alta moralità ed eticità di chi è chiamato a fare/produrre Arte.
Ci tenevo a esprimere questo, prima di addentrarmi nello stimolo più proprio che la presente vuole partecipare.
È da un po’ che non mi incontravo con lui, vuoi per il mio indaffarato dolce penitente dedito al prossimo edito, che per gli inevitabili occasionali acciacchi proprie dell’incipiente inverno della vita.
Sarò sincero, nonostante questo intermezzo, lui, Roberto l’ho sempre portato con me, nei pensieri e nel mio cuore, perché quando la mente e il sentimento sono ad aprirsi in sincerità e spontaneità non può che essere così, vero Roby!
Alcuni giorni fa gli ho partecipato, a stretto giro WhatsApp, uno dei miei usuali espressi culturali che coinvolgono Creativi & Narrazione, il gruppo di dialogo, da me creato, di ex allievi dell’Artistico...
Nello specifico si trattava del restituito audioregistrato Mrs. Winter’s Jump, di John Dowland (1563-1626) che avevo interpretato alla chitarra classica nella trascrizione da liuto rinascimentale.
Lui mi ha subito restituito il cordiale saluto e la più sincera partecipazione d’apprezzamento per quel dolce evo vibrato, accompagnando gli ovvi interrogativi sul nostro momentaneo persoci di vista.
Dapprima mi ha, con estrema delicatezza, sentimento e concisione, accennato ad alcune provate evenienze private familiari d’origine, d’avolo, quando la vita inevitabilmente ha fatto il suo corso e lascia un amaro nostalgico di quelli che furono gli affetti più cari e anche il loro essere nel tramandato oggettivo delle cose materiali che l’hanno accompagnata, poi, inaspettatamente, ecco una sua: in un post, senza alcun preavviso e tra le righe divagatrici di qualche circostanza altra, il partecipato iconico fotografico di due dipinti incorniciati in bella mostra di sè.
Nell’urgente distratto della mia lettura di quelle poche stringhe il suo iconico è passato come inosservato (?): due macchie, due indistinte macchie, che però, per quanto carpite con la coda dell’occhio, sono rimaste incosciamente ben impresse nel mio riserbo percettivo e col proposito, vago, di un curioso rivisitato d’interesse che inevitabilmente non poteva che divenire amabile stagione dell’anima.
E, così è stato.
Appena assaporato il testo scritto ecco il mio repentino tornare tra quei refusi percettivo- iconici.
Già prima di attenzionarli, un forte emotivo era a pervadermi nel coinvolto di quelle valenze cromatiche tanto contrastanti quanto assonanti in una tavolozza a momenti espressa con soffusi ocra giallo-verdi che nel modellato impasto raccogliente il di qua e il di là tonale della superficie pittorica.
Sull’onda di quella primiera incorruttibilità, ecco sovvenirmi un sussurro, un recondito, un alito che lui, Roberto, in una delle nostre ultime cordialità di intimo corrisposto mi aveva partecipato: «Il significato, il peso della vita che non ha più tempo per essere se non in quello che l’ha oggettivata». «Il dover essere nel non più essere». «Il lascito testamentario di un discorso iniziato tanto tempo fa e che ora si faceva fardello di un dovere morale nel suo maturato professionale e dello spirito». «Cosa ne sarà del nostro transito, del suo segno tangibile, oggettivato in tante espressioni di vita (Arte) per il generazionale subentrante?».
Era questo il quid, che mi poneva: della sua immensa produzione valoriale che ora avrebbe necessitato il benaccolto magari di una istituzione locale o specifica più attenta alle identità culturali di territorio perché nulla andasse perduto di un segno comunitario che tanto essere ha profuso, pur nel suo dignitoso silente (?!).
Bah!
Tante vite d’avolo son passate, son passate pur avendo onorato il quotidiano affanno, magari responsabilmente e col e nel sacro dovuto unicamente dedito ai familiari affetti, ma, si domanda il Nostro, e ora pare pure me medesimo che scrivo queste umili riscontri su stimolo: «Sì, effettivamente chi ha avuto da dire il suo nelle oggettivazioni di tanti valenze d’arte, cosa effettivamente può più di queste concretezze!».
In un mondo del distratto, dell’esclusivo appannaggio del dio denaro, di una religione mondana fatta di illusioni promesse e sacrifici. Una religione feticistica che ha trasformato i soldi a fine ultimo della vita. La vita immolata al “godimento”, secondo rituali irrefrenabili, che perseguono possesso, successo, potere, appagamento egoistico non può che trovare il giusto turbamento di Roberto e di chi come lui ha assaporato il valore della vita in quelle oggettivazioni iconiche tanto cercate quanto sofferte, amate e gioite.
I due dipinti in parola sono opere di orientamento paesaggistico risalenti agli anni ’80 dello scorso millennio.
Sono due elaborazioni interpretative sapienti: una, relativa a un vibrato esterno, quasi da giardino dal sapore tematico realistico di memoria tutta mediterranea… l’altra, di uno squarcio roccioso tra i meandri di una natura ancora vividamente presente nel suo variegato articolato cromatico-tonale di gusto, sentimentale.
Entrambe le produzioni infondono un senso atmosferico di sospeso, un attento occhio indagatore dell’animo, silente quanto assaporante le oggettiva di quelle tavolozze e pastosità che si fanno concretezza, quasi consustanziazione del riguardante con quell’intorno di struggente nostalgia (?).
Nella prima proposta, Cortile con pozzo, è subito a imporsi un forte aspetto di cultura: la valenza spaziale dell’artifizio prospettico delle articolate calcinate solarità murarie.
L’iniziale imponenza del caseggiato in primissimo piano (a sx) si modula, poi, nella fuga dei lineamenti accidentali del successivo digradato architettonico.
La biacca o il titanio la fanno da padrone nel loro acceso mediterraneo subito richiamato a stemperarsi nel variegato disseminarsi del naturale dei pur accesi verdi.
Roberto Cau, Cortile con pozzo, tempera su cartoncuoio, 50 x 70 cm, 1984.
La timida parvenza frastagliata e vibrante vegetativa del rasente caseggiato di primo piano viene anche qui richiamata nel prospettico allineato di sfondo e centrale e filiforme arboreo che rompe quella rigida geometria prospettico-formale-lineare latente nei due terzi dell’inquadratura.
Nel pozzo (in basso a dx, in primo piano) e in questo aereo vegetativo pare di trovare ancora un legato di mestiere, poi ampiamente superato dall’aulica successiva e matura produzione della serie de I trittici di cui ho parlato altrove.
Anche la parete di primo piano di quel caseggiato appare un po’ sacrificata dalla presenza plastico-cromatica che estranea il categorico ormai assunto pittorico dell’ombreggiato colorato…
Il soggetto rimanda a una dimensione silente di un domestico agreste delizioso, di umile attento tenuto di vita lavorativa.
Di particolare valenza cromatica e attentiva risulta quel lastricato che si dipana, con i suoi ocra alterni di piccolo sapiente tocco, in un prospettico e usurato essere.
Significativo, poi, esita il nascosto variegato tonale azzurrognolo del pozzo che preannuncia già una maturità in auge.
Nel secondo dipinto, Paesaggio con rocce e piccola cascata, il vellutato contrasto di complementarità (roccia/vegetazione, ocra gialla-rosa-siena/verdi) accentua il restituito tonale dell’aereo intorno sostenuto dal sapiente profondo ombreggiato colorato di antica memoria.
 
Roberto Cau, Paesaggio con rocce e piccola cascata, tempera su cartoncuoio, 70 x 50 cm, 1983.
L’impianto del primo piano (a dx) con i suoi corposi virgolati e a volte ampi partiti di tocco immediato, fresco, dato “alla prima”, è lì a restituirci uno spazio prospettico di antica sapienza (la prospettiva aerea) nella relazione con la tessitura tonale del secondo piano sfuggente (a sx).
La valenza generale per lo più fredda della gamma cromatica, seppur sapientemente bilanciata dall’ammasso roccioso del primo piano è a conferire il già citato sospeso e silente goduto dello spirito.
Certamente, la prezzolata cascatella, per quanto compositivamente opportuna nella sua focalità attrattiva tanto di dislocazionale che cromatica nel suo cupo essere dei prussia (?), esita un po’ di maniera, ma poi, non più di tanto: “ci sta”, quel delizioso idillio di un angolo naturalistico perduto o affannosamente cercato a ristoro di qualche più modesto spirito.
Non me ne volere, Roberto, eh! Ma la fruizione estetica, il godimento del bello, del piacevole, del pittoresco è, e può essere anche, destinato ai più umili spiriti (?!)_ È la democrazia propria dell’Arte, il riscatto da ogni partigiano suo voluto altro...
Non mi resta che chiudere queste poche e umili riflessioni ringraziando ancora una volta quell’instancabile sensibilità amicale che nulla chiede se non un silente essere.
Grazie.
29 febbraio 2024 (Giovanni Carafa)